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Il libro di Giona secondo Erri de Luca

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Parti del libro di Erri de Luca

L'introduzione

La traduzione con note linguistiche

La traduzione interlineare

Indagine su un venditore di colombe

Note mie

I presupposti lettori

Il primo uomo

Il nome di Dio

Conclusione

Bibliografia

Articolo bibliografico

Questo testo dà i detagli soprattutto semitisti soggiacenti al mio articolo corrispondente compreso nelle pagine letterarie italiane.

Certi brani di questo testo sarebbe importante studiarli col libro di De Luca accanto.

Discussione

Contatto

Erri de Luca è un autore straordinario nel senso che sembra di aver trovato il suo equilibrio personale fra lavori manuali da muratore, lavori creativi da autore di testi di finzione, lavori intellettuali da pensatore piuttosto kabbalistico-esoterico e una fede incrollabile. Perciò ci sono opere sue molto diverse riflettanti tutte le sue caratteristiche personali e garantentigli un pubblico assai vasto.

Non è dunque un caso se il suo libro Giona / Ionà (come certi altri) combina le riflessioni kabbalistiche-teologiche e linguistiche con un testo suo di finzione partente dal racconto biblico di Ionà.

Il libro contiene le parti seguenti da considerare individualmente:

 

 

 

 

 

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L’introduzione

Siccome l’introduzione presenta i differenti temi del libro, essa rifletta ugualmente tutti i problemi contenuti nel libro intero.

De Luca è sincero nel senso che dice fin dall’inizio che il suo libro non è un’opera scientifica, ma un’espressione di fede. Egli vede nel testo biblico piuttosto una manifestazione di "Iod" (= Dio, vedi Il nome di Dio), che non una rassegna di testi fatti da uomini fallibili durante più secoli e tanti oggetti delle ricerche degli studiosi. Questo deve immancabilmente influire sull’interpretazione del testo.

Per l’esatta collocazione delle parole italiane sotto il texto ebraico della traduzione interlineare l’autore ne promette troppo perché questa promessa è addirittura impossibile da mantenere a cagione delle strutture sintattiche incompatibili delle due lingue (vedi giù).

L’appellazione "madrelingua" e "lingua madre" per l’ebraico dimostra un’accettazione invecchiata della linguistica semitista. L’ebraico antico non è affatto la "madre" delle altre lingue, neanche di quelle del gruppo delle lingue semitiche, a cui appartiene. (Per i problemi del racconto della torre babilonica vedi il capitolo Da Adamo alla "confusione linguarum" in La ricerca della lingua perfetta da Umberto Eco.)

Sono interessanti l’interpretazione del pesce grande come un rifugio o scampo (invece di un pericolo) e le spiegazioni nei confronti del salmo inserito nel libro di Giona.

La spiegazione del nome di Giona (Ionà) è all’inizio corretta, ma va troppo lontano. Non vedo perché Giona sarebbe un "oppressore" di Ninive. Questo è, penso, tirato per i capelli. Ma De Luca non si ferma neanche lì, come vedremo piú avanti.

Il calcolo cabbalistico proposto da De Luca (p. 12: Ionà + mare = Ninive) mi pare un gioco dello stesso valore che un oroscopo: a volte è giusto, altre volte è sbagliato. In una lingua come l’ebraico, che comporta molte parole brevi e che può venire scritta quasi senza vocali, si arriva troppo spesso a calcoli "giusti" del genere - che perdono tutta significazione a cagione della loro grande frequenza.

A volte le spiegazioni teologiche di De Luca oltrepassano la cornice del libro di Giona (p.es. p. 13 e 20). Questo è legittimo dal punto di vista della fede, ma non ha niente da fare con il libro.

Per "hevel" vedi le mie note per la traduzione con note linguistiche. Penso che De Luca si sia perduto nella sua speculazione.

Il racconto della storia di Ninive è interessante, ma mi stupisco di non leggere la minima parola sul paradosso inerente al libro di Giona: Questo libro è un plaidoyer per la clemenza di JHVH (= Dio, vedi giú) nei confronti di Ninive, città nemica, città dei sanguini e dell’oppressione degli ebrei! Come questo si spiega?

E’ normale che un autore giudeo-cristiano come De Luca ami fissare per i libri dei profeti una data "ben precedente" gli avvenimenti previsti da loro. Però pare che gli studiosi non siano tutti d’accordo. Affatto la Bibbia sembra di contenere parecchi casi di avvenimenti "annunciati" a posteriori. Ovviamente questo fatto può anche interpretarsi come la rivelazione tardiva di un annuncio già incompreso. E’ una questione di fede...

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La traduzione con note linguistiche

I testi biblici sono stati tradotti e commentati non so quante volte. Perciò sarà comunque molto difficile trovarci qualcosa di nuovo. Malgrado queste condizioni assai sfavorevoli Erri de Luca fa un nuovo tentativo, che non mi convince perché le basi linguistiche dell’autore sono troppo deboli. Vedo soprattutto i problemi seguenti:

I tempi grammaticali

De Luca sembra di avere delle nozioni assai caotiche del sistema verbale dell’ebraico antico. Invece di dare spiegazioni utili ai suoi lettori, li perturba inutilmente con asserzioni dovute a una grammatica invecchiata o piuttosto troppo influenzata dall’ebraico moderno. De Luca parte da un’idea troppo semplice per l’ebraico antico:

perfetto ebraico
participio attivo ebraico
imperfetto / futuro ebraico

= passato italiano
= presente italiano
= futuro italiano

Questo sistema rifletta esattamente quello dell’ebraico moderno. Ma per l’ebraico antico le cose sono purtroppo più complicate e più strane dal nostro punto di vista indo-europeo. Ecco qua qualche brevissima spiegazione delle basi del sistema verbale dell’ebraico antico:

L’ebraico antico conosce solo due "tempi" con cui non soltanto tutti i tempi grammaticali, ma anche tutti i modi (eccetto l’imperativo) delle lingue indo-europee devono venire espressi. In Germania, questi "tempi" si chiamano tradizionalmente (in latino) "perfectum" e "imperfectum" (già "futurum"), ma da molto tempo è un fatto conosciuto e ammesso dagli specialisti che questi "tempi" esprimono solo accidentalmente un vero tempo nel senso indo-europeo. Ci sono brani biblici dove ciascuno dei due "tempi" s’impiega a vicenda per quasi ogni tempo indo-europeo. Dal punto di vista teoretico, uno dei colpi più decisivi - almeno in Germania - per una piú giusta interpretazione dei "tempi" ebraici antichi è stato portato, nella sua tesi di abilitazione, dal professore Diethelm Michel, che mi ha insegnato l’ebraico antico negli anni 1960 all’università di Heidelberg. Ma nella pratica c’era già stata una lunga fila di eccellenti traduzioni della Bibbia e di altri scritti ebraici antichi senza un numero notevole di errori di "tempo". Il tentativo di De Luca di tradurre il piú letteralmente possibile non apporta dunque nessuna novità interessante, ma una moltitudine di grossi errori.

Il sistema soggiacente è molto complesso e continua ad essere discusso nei detagli, ma si possono dire (semplificando) le cose seguenti (che sono tentativi di mettere in rapporto diretto delle cose che non lo sono veramente):

  • Il "perfetto" esprime sostanzialmente un fatto o un’azione di tipo assoluto, non dipendente da nessuno e nulla eccetto dalla volontà o dall’essere del suo "soggetto" (anche quest’ultima nozione è molto indo-europea ). Dico "sostanzialmente" perché il senso del "tempo" si può modificare in combinazione con una congiunzione, un avverbio o altre particole.
  • L’ "imperfetto" (già "futuro") invece esprime soprattutto un fatto o un’azione di tipo condizionato, dipendente da qualcosa o qualcuno altro che del suo "soggetto", oppure di tipo modale. Dico "soprattutto" perché il senso del "tempo" si può modificare in combinazione con una congiunzione, un avverbio o altre particole.
  • Il "tempo" normale del racconto storico è l’ "imperfetto" (sic!) combinato con la congiunzione "w" vocalizzata "wa", mentre lo stesso "tempo", combinato alla congiunzione "w" vocalizzata "we", esprime diverse modalità (dovrei, vorrei, potrei...) e, a volte, rapporti di finalità o consecutività.
  • Il "perfetto" combinato con la congiunzione "w" vocalizzata "we" può esprimere un’esortazione (iussivus) o, a volte, consecutività.
  • I participi attivo o passivo non esprimono a priori un tempo, ma nient'altro che l’attivo o il passivo e, a volte, un rapporto di tempi (attivo: simultaneità, passivo: simultaneità o anteriorità). Il problema per noi indo-europei è che il participio è spesso il solo verbo della frase ebraica.
  • L’ipotassi implicita

    Il fenomeno d’ipotassi implicita, che è tipico della lingua ebraica antica, sembra di essere completamente ignoto dell’autore, ovvero egli l’ignora coscientemente per fare una traduzione più "letterale" possibile.

    In ebraico antico, il rapporto logico fra due frasi non è sempre espresso. Spesso l’una di due frasi vicine è logicamente subordinata all’altra. In molti casi non c’è nessun cenno per indicare l’ipotassi, ma a volte c’è un cambiamento di "tempo" (vedi sopra) che permette di stabilire i veri rapporti. Per un parlante indo-europeo è spesso necessario esprimere l’ipotassi con congiunzioni adatte (perché, finché, sì che, mentre, etc.) per essere chiaro.

    Le frasi nominali

    Erri de Luca sembra di mal conoscere o mal tradurre coscientemente le frasi nominali (vuol dire, senza verbo), che sono frequenti in lingua ebraica. Questa sorta di frasi, siamo obbligati a completarle almeno con una "copula" (sovente "essere" o "diventare") in lingua romanza o germanica (ma non sempre nelle lingue slave), e questa "copula" può avere tutti i tempi immaginabili, secondo il contesto. De Luca preferisce troppo spesso il presente...

    Certi problemi visti nel loro contesto

    Seguiamo il testo e le note di De Luca, soprattutto, ma non solo, per le forme verbali:

  • P. 23 nota 1:
  • Questa non è fasulla, ma vede troppa significazione in un fenomeno banale. (Il passato remoto essendo il tempo storico in italiano, nessuno si stupirebbe di vederlo anche all’inizio di un racconto. Ciononostante la prima frase della genesi – "All’inizio Dio crea il cielo e la terra" - contiene un bel "perfetto" assoluto..., ma solo perché si tratta lì di un fatto di fede immutabile che non è visto come una tappa di una evoluzione, ma come una libera decisione di Dio.)

  • P. 24 nota 10:
  • L’autore interpreta la forma "baa" come un participio attivo (ciò che è possibile) e lo traduce per "trovò un batello che va", perché egli pensa che questo participio esprima il presente. Ma difatti il participio esprime la simultaneità con "trovò", sì che bisogna tradurre "trovò un batello che andava". Io penso del resto che "baa" sia qui la forma (omonima col participio attivo) del "perfetto" in una frase relativa asindetica (vuol dire, senza indicatore di relatività o subordinazione, costruzione frequente dopo una parola indeterminata ["un batello", senza articolo in ebraico]); ciò che ci conduce però alla stessa traduzione "trovò un batello che andava".

  • P. 25 nota 17:
  • Questa nota è quasi corretta malgrado la concezione che De Luca ha del "futuro" ebraico. Qua il "futuro" esprime una finalità ("perché forse si allisci"). Se non si tiene conto dell’ipotassi implicita, si arriva a una traduzione come quella di De Luca.

  • P. 26 nota 21:
  • Essendo che la forma verbale (dell’ "imperfetto" o "futuro" ebraico) non ha a che fare col futuro indo-europeo, traduciamo semplicemente "da dove vieni", come il contesto l’esige!

  • P. 26 verso 9:
  • La traduzione "io temo" è corretta perché in un discorso diretto la simultaneità con la situazione del parlante si esprime in ebraico antico per il participio attivo, e in italiano per il presente.

  • P. 27 verso 11:
  • La traduzione "faremo" è corretta nel senso di "possiamo fare" o "dovremmo fare" (modalità = "imperfetto"), ma al luogo di "e si placherà" (anche nel verso 12) sarebbe meglio dire "perché si plachi/placassi" (finalità e ipotassi implicita).

  • P. 27 nota 27:
  • Niente "brusco presente"! Il participio è simultaneo a "avevano consciuto" e si dovrebbe tradurre "era fuggiasco".

  • P. 27 nota 30:
  • Niente presente! I participi qui presenti dovrebbero tradursi "andava e faceva tempestate" (anche in p. 28 verso 13).

  • P. 27 verso 12:
  • Per "conosco io" vedi la mia nota per p. 26 verso 9.

  • P. 28 verso 14:
  • Le azioni "non si perisca noi" e "e non darai" (due "imperfetti") sono assolutamente paralleli, ciò che impone la traduzione "tu non dia". La fine della frase comporta due "perfetti" che De Luca e tanti altri (le Bibbie di Luther e quella di Zurigo comprese) traducono per un tempo del passato. Io penso invece che il presente sarebbe meglio perché questa frase esprime una verità senza limitazione temporale, quasi: "Tu sei JHVH, e fai ciò che vuoi". Da discutere...

  • P. 30 nota 41:
  • Niente "salto di tempo"! La traduzione corretta di questo "imperfetto" sarebbe (anche in verso 6) qualcosa come "sì che un fiume [un fiume nel mare?! piuttosto 'acque impetuose'] mi avvolgesse" (consecutività).

  • P. 31 nota 48:
  • Il fascino di una possibile coincidenza (da lui trovata) di "havel havalim" e del nome di Abele porta De Luca a ignorare (1) l’utilizzo di "havle saw" (nullità di menzogna) per designare gli idoli pagani, (2) la vocalizzazione (tardiva, per dire il vero) di "mesamrim" ([coloro] che venerano) [De Luca sembra di leggere "mismarim" (custodi)], e (3) la grammatica fondamentale ("custodi di" si direbbe obligatoriamente "mismare"). A proposito del resto si può discutere. Tutto dipende dall’interpretazione di "hesed" (amore, grazia; atto di grazia o Dio lui medesimo). A secondo di questo il futuro o il presente possono essere esatti per l’ "imperfetto" (che De Luca traduce "abbandoneranno") del testo originale. La Bibbia di Luther traduce: "Coloro che si attengono cose vane, abbandonano la loro grazia.", la Bibbia di Zurigo traduce: "Coloro che si attengono a idoli vani, abbandonano [JHVH, che sarebbe] il loro rifugio." (traduzioni italiane mie)

  • P. 32 verso 10:
  • I futuri sono esatti nel senso di una modalità (voglio...), tanto più che i due "imperfetti" sono accompagnati da un "h cohortativum".

  • P. 33 verso 2:
  • Per "io dico" vedi la mia nota per p. 26 verso 9.

  • P. 34 verso 4:
  • L’annuncio di un finimondo parla sempre del futuro, sì che il participio sarebbe da tradurre "sarà rivoltata" (non discutiamo della parola "rivoltata" stessa!).

  • P. 36 verso 7:
  • Tutti questi "imperfetti" ebraici esprimono un esortazione, meno un futuro.

  • P. 36 verso 8:
  • Non sono d’accordo con De Luca nell’interpretare questo verso come la continuazione del racconto. Le forme verbali ("we" + "imperfetto") continuano le esortazioni del verso precedente. Il racconto continua col passato storico ("wa" + "imperfetto"), il che arriva solo nel verso 10 ("e vide").

  • P. 36 verso 9
       e nota 63:
  • Per "conosce" vedi la mia nota per p. 26 verso 9. Per il resto della frase De Luca non tiene conto (coscientemente, penso) dell’ipotassi implicita ("chi sa se...?"), ma i tempi sono corretti. La struttura della frase è interessante: "Ritornerà" ("imperfetto" per la consecutività nei confronti del ravvedimento), "pentirà" e il secondo "ritornerà" (due "we" + "perfetto" per consecutività - oppure per enumerazione + atto divino assoluto?), "non periremo" ("we" + negazione + "imperfetto" per consecutività). Penso che ci siano sfumature di significato che ci scappano...

  • P. 37 verso 10:
  • Ben tradotto. Struttura interessante: "erano ritornati" ("perfetto" ebraico per atto non condizionato [ciò che è un complimento per la popolazione!], "si pentì" ("perfetto storico" che continua il racconto), "aveva detto" e "non fece" (due "perfetti" per atti assoluti). La nota 66 fa riflessioni teologiche interessanti.

  • P. 38 verso 2:
  • "non è questa" è una frase nominale che parla del passato, dunque "non è stata"! Gli altri tempi della traduzione sono corretti.

  • P. 39 nota 74:
  • Niente "salto di tempo"! Gli "imperfetti" dopo "finché" esprimono una finalità o una intenzione andante dal passato verso un relativo futuro. Si dovebbe dire qualcosa come "finché (non) avesse visto che cosa sarebbe accaduto".

  • P. 40 verso 8:
  • La traduzione "fu come a spuntare del sole" è una bella "hevel havalim" (niente di niente) che nessuno comprende (penso). De Luca sembra di ignorare che la particola "c" non vuole soltanto dire "come", ma anche "al momento di". Tutta l’espressione vuol dire semplicemente "allo spuntare del sole".

  • P. 41 nota 83:
  • Il vento "che fa tacere" sembra di essere una pura invenzione di De Luca. Io non saprei a che forma del verbo "haras" (tacere) questa parola potesse corrispondere!

  • P. 42 verso 11:
  • L’origine ebraica di "non mi commuoverò" essendo un "imperfetto" modale, la traduzione corretta sarebbe piuttosto "non mi commuoverei" o "non dovrei commuovermi", mentre "ha conosciuto" traduce malamente un "perfetto" per atto non condizionato, equivalente al presente "[egli/ella] sa".

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    La traduzione interlineare

    E’ evidente che la traduzione "letterale" non sia paragonabile a quella "normale" perché non può rispettare le regole della sintassi italiana. A priori il tentativo di De Luca sembra di essere interessante, ma esso comporta considerevoli problemi dovuti alla scarsa compatibilità della struttura delle due lingue:

    Anche questa traduzione "letterale", che si vuole la più fedele possibile del testo originale, è piena d’italianismi (oppure d’indo-germanismi) che falsificano l’impressione che un lettore non semitista può avere del testo.

    Certe frasi "tradotte" mi paiono francamente incomprensibili per un lettore italiano. Un solo rimedio per vedere l’intenzione dell’autore: leggere le due traduzioni simultaneamente (ciò che ho fatto io).

    Certe espressioni idiomatiche e costruzioni grammaticali non possono venir tradotte letteralmente senza prestare a confusione. E’ necessario trovare l’equivalente concettuale e situazionale, non letterale per farsi comprendere. Vediamo soltanto i problemi piú importanti:

    - I gruppi nominali dell’ebraico antico sono costruiti sì che una traduzione letterale è spesso impossibile. Niente declinazione, soltanto trasformazioni vocaliche dovute a uno spostamento d’accento, niente articolo indefinito, regole "strane" (per un indo-europeo) dell’impiego dell’articolo definito etc. etc. La traduzione "letterale" di De Luca pretende di dare una visione più "giusta" della morfologia dell’ebraico, ma essa dà invece una sequenza di parole che non è né una frase ebraica né una italiana.

    - Il caso delle forme verbali è speciale nel senso che tradurre quasi sistematicamente il "perfetto" per un tempo del passato, il participio attivo per il presente e l’ "imperfetto" per il futuro (ciò che fa De Luca, a eccezione del tempo storico "wa" + "imperfetto", che egli interpreta bene) falsifica completamente il senso di certe frasi e ne rende incomprensibili altre (vedi qua sopra per il sistema verbale dell’ebraico antico). Io vedo nel tentativo di De Luca meno una vera "traduzione letterale" (che è impossibile) che non un mezzo di stupire i suoi lettori non semitisti (movimento del ventre, meno dell'intelletto) davanti a questa lingua così "diversa". Se questo era il solo scopo dell’autore, ci è senza dubbio riuscito!

    Ci sono altri problemi, ma mi fermo qua per non faticare chi legge questo...

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    Indagine su un venditore di colombe

    Questa bella trasposizione del testo ebraico antico in un brano di finzione artistica combina l’argomento biblico col risultato delle ricerche personali e delle idee di De Luca. Però sfortunatamente anche questo brano soffre di tutti i problemi soprattutto linguistici già menzionati.

    A volte l’argomentazione entra difficilmente nel dialogo e si sente troppo l’autore stesso che parla. Non comprendo, del resto, l’ostinazione con cui Giona spiega la sua lingua a un interlocutore che porta un nome semitico, che sembra dunque di parlare la stessa lingua...

    L’interpretazione dei diversi fraintendimenti è interessante, ma non è costringente (p. 85 sq.).

    Sfortunatamente l’ultima pagina (89) contiene uno dei piú grossi errori di grammatica commessi da De Luca. Trascinato dalla sua voglia di trovare "coincidenze" di nomi, penso l’autore abbia esagerato: La costruzione "ir haiona" può voler dire "la città della colomba", ma contrariamente all’idea di De Luca, il significato "la città di Iona" è assolutamente impossibile per il testo citato! L’errore viene, da un canto, dalla citazione troncata che De Luca fa nel suo libro (nel testo c’è "hair haiona"), e, dall’altro, di conoscenze di grammatica non usate o non avute. Ecco i testi immaginabili e le sole traduzioni possibili:

    ir haiona
    hair haiona
    ir iona

    = la città della colomba
    = la città che opprime (= testo originale)
    = la città di Iona

    La presenza o l’assenza dell’articolo definito forza il significato, sì che le traduzioni non sono intercambiabili! (Notate anche questo: In ebraico antico non c’era la differenza fra lettere maiuscole e minuscole, che in italiano (e molte altre lingue europee) serve a fare la distinzione fra nomi propri e nomi comuni.)

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    I presupposti lettori

    Mi sono spesso domandato a che sorta di lettori questo libro fosse destinato. Non ho trovato una risposta pienamente soddisfacente. Questo dilemma viene dal miscuglio di interessi necessari per interessarsi a questo libro: interessi culturali, storici, teologici, religiosi, filosofici, mistici, linguistici. Ce n’è un po’ di tutto, ma mai sufficientemente per i "specialisti". Manca l’esattitudine scientifica, il rigore del pensiero "universitario". Questo libro è per me piuttosto una testimonianza destinata a gente che cerca testimonianze (soprattutto segrete o diverse di quelle ufficiali) e che dà più valore all’esperienza personale che non alla realtà comune di tutti.

    Questo fenomeno di lettura è tipico dei testi ebraici biblici, che sono letti e riletti da centinaia ovvero migliaia di anni tanto dai fedeli quanto dai (veri e falsi) teologi del giudaismo e del cristianesimo. La "superficie" del testo essendo stata scrutata quanto possibile, non resta che da "tuffarsi" negli abissi di significazioni secrete. La lingua ebraica, lingua scritta o scrivibile (quasi) senza vocali, ma con consonanti avendo ciascuno un valore numerico si presta a tutte le sorte di "giochi" intellettuali. La tradizione kabbalistica ne trae la sua esistenza, De Luca ne approfitta, e Michael Drosnin/Elijahu Rips vi trovano un "codice biblico" molto fruttuoso per il loro conto bancario (bestseller negli Stati Uniti e in Francia!)... L’esoterismo cresce con l’impotenza della gente davanti ai problemi politici, sociali e economici.

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    Il primo uomo

    Fortunatamente De Luca non insiste troppo sulla coincidenza di "adama" (suolo, superficie della terra) e "Adamo", perché non c’è niente di misterioso.

    La parola "adam" significa in ebraico antico l’insieme dell’umanità, ovvero "gli uomini". Un solo uomo si chiama dunque "ben-adam", "figlio dell’umanità" cioè. Quest’ultima espressione ha dato luogo alla traduzione erronea di "figlio di Adamo".

    E’ dunque normale che la superficie abitabile della terra si chiami "adama" e che l’uno degli autori della genesi abbia pensato bene di chiamare "Adam" il primo uomo del mondo.

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    Il nome di Dio

    Fin dall’inizio del libro Erri de Luca dice "Iod" quando parla di Dio. Questo nome assai misterioso per uno che non sia né ebreo né semitista è un’abbreviazione corrente del nome sacro di Dio, il tetragrammo JHVH cioè (l’uso di lettere maiuscole è mio, non esistendo questo in ebraico). Gli ebrei tentano di non usare questo tetragramma (e soprattutto la sua pronuncia) per non diminuire la sua santità. (Vedi la discussione dei testi della pietra commemorativa per la già sinagoga grande di Monaco di Baviera.) Siccome il tetragrammo è un nome sacro, nelle edizioni (tardive) comportanti i vocali, quelli veri sono sistematicamente sostituiti con quelli di "adonai" ("mio signore", piú esattamente "miei signori") o di "elohim" ("dio", piú esattamente "dèi") per evitare la pronuncia vietata.

    L’interpretazione del plurale usato per i nomi di Dio non è del tutto sicura. Si può pensare a un plurale di venerazione ("plurale maiestatis" in latino) nonché a un eco venente dal politeismo proto-giudeo. Probabilmente sotto l’impatto del monoteismo, che conosceva un solo dio al luogo di tutti già venerati, il plurale è comunque diventato sinonimo del singolare. Perciò si trovano (di rado) il singolare "el" e (molto spesso) il plurale "elohim" nello stesso senso di "dio" al singolare. A volte "el(ohim)" è preceduto dall’articolo definito "ha" [non esiste del tutto l’articolo indefinito in ebraico antico] per dire "il dio" ("Iddio") perché all’inizio (e spesso nei testi biblici) questa parola era meno un nome proprio che non un nome comune che voleva dire "dio".

    Anche nella Bibbia senza vocali il tetragramma "JHVH" non è dunque il solo nome di Dio, però si parla anche di "elohim", l’uso dell’uno e dell’altro essendo a volte personale dello scrittore o del suo ambiente religioso (si parla di scrittori "jahvisti" rispettivamente "elohisti"), a volte conseguenza di una scelta semantica ben precisa - come nel libro biblico di Giona.

    De Luca dice (p. 25 nota 18) che non sa perché "elohim" arrivi tanto con l’articolo definito quanto senza articolo. Ci sono però indicazioni abbastanza chiare un po’ più lontano nel testo (e un po’ dappertutto nella bibbia). Però bisogna sapere che le regole reggenti l’uso dell’articolo definitivo in italiano e in ebraico sono incompatibili fra di esse. Vedi quaggiú il mio commento a proposito di Giona 1,9.

    Dommaggio che De Luca non abbia perseguito la questione, perché la distribuzione delle appellazioni di Dio e l’uso dell’articolo non è arbitraria e contribuisce fortemente a un’interpretazione più profonda del testo. Seguiamo il testo per questo problema:

  • Giona 1,1-4:
  • Questi versi mostrano che l’appellazione di Dio, il suo nome proprio cioè, è JHVH (certi semitisti e teologi dicono "jahvè"). Giona (secondo l’autore del libro biblico) conosce questo nome, e quando JHVH gli parla, egli sa chi parla.

  • Giona 1,5:
  • I marinai fanno preghiere "ciascuno al suo elohim". Tutto chiaro: Elohim non è un dio preciso, ma si tratta di un nome comune che vuol dire "(qualunque) dio". Se non c’è l’articolo (definito), è soltanto perché in ebraico il suffisso possessivo toglie l’articolo. Questo vale anche per Giona 1,6 ("tuo Elohim"), di cui c’è la conferma nello stesso verso perché ciò che De Luca "traduce" per "l’Elohim" vuol effettivamente dire "il dio" (nome comune con l’articolo definito).

    [Una riflessione "fra me e me": Chi viene favorito dal tradurre "elohim" per "elohim"? Quelli che comprendono questa parola non hanno bisogno del tutto della traduzione del testo, e quelli che hanno bisogno della traduzione del testo non comprendono "elohim"...]

  • Giona 1,9:
  • Giona si sente obbligato di spiegare ai marinai la sua fede: crede in JHVH (nome proprio sconosciuto dai marinai), e questo JHVH è il dio [nome comune] dei cieli . La costruzione "JHVH elohe hasciamaim", che De Luca "traduce" per "Iod Elohim dei cieli", dovrebbe piuttosto tradursi per qualcosa come "JHVH, (il [solo]) dio dei cieli". La parola "elohe" è senz’articolo solo perché le regole formali della grammatica lo esigono ("status constructus").

  • Giona 1,10:
  • Quando l’autore del libro biblico di Giona parla, dice sempre JHVH, perché egli conosce questo nome e chi lo porta. Questo vale anche per la prima evenienza di JHVH nel verso 14.

  • Giona 1,14, seconda e terza evenienza di JHVH:
  • La nota 33 di De Luca è corretta e importante, perché i marinai usano il nome di JHVH per la prima volte. Ma chi li ha convinti?

  • Giona 1,16:
  • Adesso i marinai sanno di chi avere paura e a chi sacrificare. Questo dio ha un nome. Perciò questo verso contiene il tetragramma JHVH.

  • Giona 2,1:
  • L’autore biblico parla (e esprime la fede di Giona), dunque c’è il tetragramma. Questo vale anche per i versi Giona 2,11, 3,1.

  • Giona 2,2:
  • Nuova spiegazione per chi non avrebbe ancora capito: JHVH (nome proprio) è il dio di Giona ("elohim", nome comune senza articolo a causa del suffisso possessivo).

  • Giona 2,3:
  • Giona parla (per così dire, perché siamo nel salmo intercalato), e Giona dice "JHVH". Questo vale anche per i versi 2,8, 2,10.

  • Giona 2,7:
  • Giona fa una professione di fede: tu, JHVH (nome proprio), sei il mio (solo) dio ("elohim", nome comune senza articolo a causa del suffisso possessivo).

  • L’autore usa il nome proprio di JHVH. Quanto all’espressione "ir gedola lelohim", che De Luca traduce per "città grande per Elohim", De Luca dice lui stesso (citando "i commentatori") che questa è un modo di esprimere un superlativo, ma essendo che Ninive era una città pagana, penso che la traduzione quasi letterale "grande (anche) per un dio" sarebbe migliore, perché mi sembra che "elohim" è utilizzato qua come un nome comune senza articolo nel "status absolutus", ciò che corrisponde all’utilizzo dell’articolo indefinito in lingua italiana.

  • Giona 3,5 fino alla fine del libro:
  • Al contrario del brano di cui abbiamo parlato finora, adesso il tetragramma cede il passo alla parola "elohim". Da Giona 3,5 a 3,9 questo mi pare normale, perché Giona non aveva pronunciato il nome del suo dio nel verso 3,4. Il fatto che "elohim" sia usato senza articolo nei versi 3,5 e 8, potrebbe avere due significazioni: o l’autore del libro cambia il modo di esprimersi, o la parola è citata come era stata compresa dagli abitanti di Ninive, come un nome proprio cioè. La seconda versione mi piacerebbe meglio malgrado il fatto che nel verso 3,9 appaia "elohim" con l’articolo (ciò che portebbe essere l’espressione normale dell’esitazione degli abitanti di Ninive nel chiamare questo dio sconosciuto), ma in questo caso il verso 3,9, dove "elohim" appare due volte con l’articolo, sarebbe da interpretare come un eco di questa esitazione.

  • Giona 4,2-4:
  • Fortunatamente per me, JHVH riappare, nell’intimità fra il dio e il suo profeta...

  • Giona 4,6:
  • Ciò che - secondo la traduzione di De Luca - potrebbe essere una nuova spiegazione del fatto che JHVH è il (solo) dio ("elohim"), si verifica di essere piuttosto una prova a scarico per l’interpretazione che volevo rifiutare più alto: nel testo ebraico il tetragramma è legato a "elohim" (quest’ultimo senza articolo) da un tratto orizzontale che vuol dire: attenzione, questi nomi sono equivalenti! Se si tiene conto del fatto che nei versi 4,7-9 la parola "elohim" (con o senza articolo) sia usato quasi come il nome di Dio e che il tetragramma lo cerchiamo in vano, ci si potrebbe domandare se non vi si assiste a un collage di testi di provenienza teologica diversa. I casi di collages del genere sono frequentissimi nel vecchio testamento.

  • Giona 4,10:
  • Tutto bene che finisce bene: il tetragramma riappare. Se la mia supposizione di collage è corretta, la fine del libro appartiene al medesimo autore che l’inizio.

  • P. 42 verso 11:
  • Le "dodici miriadi" sembrano di essere 120.000 (già per Luther).

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    Conclusione

    Io ho goduto di questo libro perché mi ha dato l’occasione di immergermi nuovamente nello studiare i testi antichi, ma che cosa dire al cliente "normale" di una libreria italiana? La questione è ardita e le risposte sono molteplici perché Giona / Ionà non è un libro per il cliente "normale" (vedi I presupposti lettori).

    Non si può raccommandare questo libro a una persona senza sapere gli interessi particolari che la spingono a voler leggerlo:

    - Chi ha interessi esoterico-kabbalistici goderà comunque del libro.

    - Chi ha interessi proprio giudeo-cristiani troverà strane certe idee dell’autore.

    - Chi ama la bella letteratura sarà deluso dalle parti linguistiche e teologiche e non assolutamente entusiasmato dello stile del brano di finzione contenuto nel libro.

    - E tutti i lettori saranno ingannati da quei brani partenti da una concezione erronea dell’ebraico antico.

    Vedi anche il mio testo di sintesi.

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    Bibliografia

    Per fare queste analisi ho usato i libri seguenti:

    Autore / titolo

    Osservazioni

    Info / acquisto

    Erri de Luca, Giona/Ionà

    Edizione italiana da Feltrinelli

    amazon.at: italiano
    amazon.co.uk: italiano
    amazon.de: italiano
    amazon.es: italiano
    amazon.fr: italiano
    amazon.it: italiano

    Biblia hebraica, ed. XII emendata, di Rudolf Knittel, Stoccarda 1936

    Bibbia in lingua ebraica e aramaica, introduzione in lingua latina

    amazon.de (brossura, rilegato), librerie teologiche, biblioteca universitaria

    Die Bibel oder die ganze Heilige Schrift des Alten und Neuen Testaments nach der deutschen Übersetzung D. Martin Luthers, Stoccarda

    Bibbia tradizionale in lingua tedesca secondo la traduzione di Martin Luther, senza anno d’edizione, ma con referenza al testo ufficiale del Deutscher Evangelischer Kirchenausschuß di 1912

    Librerie tedesche

    Die Heilige Schrift des Alten und Neuen Testaments, Zurigo 1936, reed. di Stoccarda

    Bibbia moderna in lingua tedesca

    Librerie tedesche

    Diethelm Michel, Tempora und Satzstellung in den Psalmen, Bonn 1960

    Tesi per il conseguimento di una cattedra universitaria in Germania

    Librerie teologiche, biblioteca universitaria

    Oskar Grether, Hebräische Grammatik für den akkademischen Unterricht, Monaco di Baviera 1955

    Corso e grammatica d’ebraico antico, in lingua tedesca

    Librerie teologiche, biblioteca universitaria

    Wilhelm Gesenius, Hebräisches und aramäisches Handwörterbuch über das Alte Testament, ed. XVII, Berlin/Göttingen/Heidelberg 1962

    Dizionario d’ebraico antico e di aramaico biblico con traduzioni tedesche

    amazon.de, librerie teologiche, biblioteca universitaria

    Hans-Rudolf Hower 2003

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    Questioni frequenti - Webmaster

    Ultimo aggiornamento: 30/07/16